Il nuovo art. 2086 c. 2 c.c.: alcuni brevissimi spunti di riflessione in ordine al (potenziale) rilievo della norma nella materia del diritto del lavoro

 

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Il disposto dell’art. 2086 c. 2 c.c. come novellato dall’art. 375 D. Lgs. 14/2019.

Il secondo comma dell’art. 2086 c.c., introdotto dall’art. 375 D. Lgs. 14/2019, nell’imporre l’adozione di “un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa” (anche – ma non solo – al duplice fine di una tempestiva rilevazione dello stato di crisi, da un lato; e della sollecita attuazione degli strumenti previsti per il suo superamento, dall’altro), appare suscettibile di incidere, più o meno profondamente, in ambito lavoristico, in special modo per via delle ripercussioni sui livelli occupazionali che conseguono ontologicamente a situazioni di crisi aziendale, ed alla luce delle profonde e sostanziali modificazioni che le innovazioni tecnologiche succedutesi negli ultimi anni hanno apportato (e continueranno a farlo in futuro) nel mondo del lavoro.

 I lavoratori, infatti, sono spesso le prime vittime della crisi dell’impresa, che il Legislatore, sotto la spinta di istanze europeistiche, ha inteso riformare in modo sostanziale, ispirando il nuovo codice della crisi ai principi della prevenzione della stessa e dell’attuazione di rimedi funzionali al mantenimento della continuità aziendale.

 In questa breve disamina, mi limito a segnalare, in forma schematica e succinta, alcune possibili criticità che, alla luce della citata disposizione, potrebbero presentarsi in materia lavoristica, in relazione agli eventi riguardanti i rapporti di lavoro subordinato intrattenuti dall’impresa in stato di crisi.

 In via di premessa, deve richiamarsi il disposto di cui all’art. 377 D Lgs. 14/2019, a norma del quale “la gestione dell’impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all’art. 2086 c. 2 c.c. e spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”.

In proposito, è opportuno rammentare il principio – elaborato dalla giurisprudenza statunitense e da tempo recepito nel nostro ordinamento – del cd. Business Judgement Rule. In base a tale principio, le scelte imprenditoriali assunte dagli amministratori in assenza di conflitti di interessi, in buona fede e sulla base di un processo razionale, sulla scorta di tutte le informazioni disponibili, non potrebbero determinare una responsabilità dell’organo gestorio, anche in presenza di conseguenze pregiudizievoli in capo alla Società.

In sostanza, all’amministratore di una società non può imputarsi di aver fatto scelte inopportune dal punto di vista economico, posto che tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale, e può rilevare, al più, come giusta causa di revoca dell’amministratore, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della Società stessa. Senza soffermarsi sul punto, si richiama l’insegnamento della S.C., secondo la quale “in tema di responsabilità degli amministratori esecutivi e del direttore generale di una società per azioni per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle loro scelte di gestione (c.d. business judgement rule) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere” (Cass. 22.6.2020 n. 12108. V. anche Cass. 22.6.2017 n. 15470; Cass. 31.8.2016 n. 17441).

 A prescindere dall’operatività del principio del cd. Business Judgement Rule – posta in dubbio da alcuni autori, ad avviso dei quali essa riguarderebbe solo le responsabilità gestorie, piuttosto che quelle organizzative – è certo che, come autorevolmente affermato, “quando si tratti di ravvisare una qualche responsabilità degli amministratori di società per non essersi fatti carico dell’adeguatezza organizzativa dell’impresa, occorre tener conto dell’inevitabile margine di discrezionalità che neppure in questo campo può essere negato” (Rordorf, Gli assetti organizzativi dell’impresa ed i doveri degli amministratori di società delineati dal novellato art. 2086 c. 2 c.c.).

 Con riguardo alla materia giuslavoristica, è da richiamare il disposto di cui all’art. 30 c. 1 L. 4.11.2010 n. 183 (intitolato “Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro”), a norma del quale, come noto, “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’art. 409 c.p.c. e all’art. 63 c. 1 D. Lgs. 30.3.2001 n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.

 Vi è da chiedersi come tale disposizione possa coniugarsi con il precetto di cui al novellato art. 2086 c. 2 c.c., che, come detto, impone l’adozione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili <<adeguati>> (sia pure funzionali, primariamente – ma non solo, come reso esplicito dalla locuzione “anche” inserita nel testo – alla rilevazione tempestiva della crisi ed all’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il suo superamento): è, quest’ultima, una norma “elastica”, il cui concreto contenuto deve essere, di volta in volta, <<riempito>> dall’interprete sulla base di standards necessariamente variabili e non fissi nel tempo, che presuppone la presenza di una struttura organizzativa non rigida, ma “plasmabile” e, per l’appunto, suscettibile di <<adeguarsi>> all’andamento dell’attività aziendale.

 Sulla scorta di un esame asettico del dato normativo, pertanto, parrebbe esservi una sorta di dissonanza tra il novellato art. 2086 c. 2 c.c. e l’art. 30 c. 1 L. 183/2010: la prima impone l’adozione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili <<adeguati>>, senza tuttavia specificare i requisiti ed i presupposti di siffatta adeguatezza; mentre la seconda circoscrive il controllo giudiziale da esercitare su provvedimenti afferenti specifici e fondamentali aspetti del rapporto di lavoro subordinato all’accertamento del presupposto di legittimità, escludendo che esso possa estendersi al merito e/o all’opportunità delle “valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”. Il che crea una situazione quantomeno anomala, ove si consideri che la valutazione della effettiva <<adeguatezza>> degli assetti adottati dall’impresa postula inevitabilmente un margine di discrezionalità, non foss’altro per la circostanza che essa deve essere compiuta in rapporto alla sua natura ed alle sue dimensioni (e, quindi, dev’essere fatta caso per caso, e non può essere “standardizzata”).

 In ogni caso, non sembra possibile dubitare del fatto che, almeno potenzialmente, la disposizione di cui all’art. 2086 c. 2 c.c. potrebbe determinare effetti di notevole portata con riferimento alla posizione di lavoratori subordinati e/o parasubordinati colpiti da provvedimenti adottati da imprese sprovviste di assetti adeguati che abbiano inciso nei rispettivi rapporti lavorativi.

 Sul piano processuale, appare senz’altro arduo e gravoso, per i lavoratori, fornire la prova del fatto che l’approntamento di adeguati assetti ex art. 2086 c. 2 c.c. avrebbe impedito l’adozione, nei loro confronti, di provvedimenti incidenti nei propri rapporti di lavoro (o, specularmente, che siffatti provvedimenti sono stati adottati in ragione ed a causa dell’insussistenza di tali adeguati assetti).

 In materia di licenziamenti, peraltro, è necessario rammentare che, giusta l’art. 5 L. 604/1966, il datore di lavoro è tenuto a fornire la prova dell’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento. Si potrebbe, quindi, sostenere che, quantomeno nelle ipotesi di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, gravi sul datore di lavoro (anche) l’onere di fornire la prova dell’esistenza degli assetti adeguati alla natura ed alle dimensioni dell’impresa.

 Genova, 9 febbraio 2023

Avv. Stefano Roveta

 

 

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